In Sogni ad occhi aperti, il sorprendente libro di poesie di Rodolfo Valentino, c’è un testo che non è una vera e propria poesia, ma piuttosto una serie di aforismi senza ordine apparente; si intitola infatti “Riflessioni a casaccio”, e vi leggiamo: “Nel giardino andiamo noi tutti, ma i più ricercano il verme nella terra e mai vedranno la promessa del fiore”.
E siamo già in pieno territorio mitico-simbolico: il giardino in cui andiamo è quello da cui siamo stati cacciati una volta, è il giardino di delizie e di rose intravisto sempre dai poeti come meta-miraggio da raggiungere per ottenere la pienezza della vita; qui il giardino sembra essere la vita stessa, la crosta di pensiero vivente che avvolge il pianeta. Tutti ci entriamo, è vero: ma c’è chi non riesce ad andare oltre la ricerca di ciò che esiste e muore a un livello di coscienza orizzontale, strisciante sulla superficie o addirittura sottoterra, nel buio. Sono i più, i non illuminati, quelli che di fronte al bozzolo non sospettano la farfalla, che di fronte al verme vedono la rosa già corrotta e divorata, che di fronte al ramo secco non sospettano mai la promessa della rifioritura.
L’atteggiamento mitico è l’opposto: è entrare nel giardino con gli occhi bene aperti e disposti a cogliere tutte le metamorfosi; a sottolineare tutte le presenze numinose, tutti i movimenti misteriosi, e la ciclicità che del buio, del verme, dell’aridità sa fare luce, farfalla, fiore, cioè Anima.
Alla Nazimova, Natasha Rambova, June Mathis, le donne che tanto potere e influenza ebbero su Valentino, lo introdussero anche a una cultura esoterica, il cui fondamento è sempre un sapere mitico-simbolico, in qualunque modo si manifesti.
Ho qui davanti a me due foto di Valentino: non sono foto di scena, non hanno niente a che fare con i suoi film; dunque posseggono una forza rivelatrice ancora maggiore. La prima foto lo mostra in veste di fauno: nudo dalla vita in su, e le gambe coperte da qualcosa che ricorda la pelle di capro; tra le mani, ha un flauto; la posa ha un che di ruotante, che conferisce all’immagine la sua energia di danza e la sua ambiguità; il ginocchio della gamba destra è rivolto verso l’alto e dalla parte opposta a quella del volto e dello sguardo, concentrato verso un punto in basso e segreto; anche lo strumento musicale è tenuto obliquo rispetto alla direzione del volto. La seconda foto è quella di Valentino in veste da pellerossa, ritratto di profilo, qui, senza p9iù ambiguità e torsioni, addirittura con una certa fissità ieratica: il torace ancora nudo ma striato da due trecce e da una collana bellissima; la fronte è avvolta da una benda, che regge una piuma scura; una mano viene portata aperta davanti alla fronte, come per riparare dal sole gli occhi di chi sta guardando lontano.
Questi due travestimenti ci dicono in realtà una dimensione profonda dell’anima: nel primo Valentino è Pan, l’antico dio silvano la cui scomparsa è coeva all’affermazione del Cristianesimo; nel secondo Valentino è Penna Nera, il pellerossa che lui sceglie come spirito guida. E c’è coerenza nell’abbinamento di Pan e del Pellerossa, c’è consequenzialità. Per scoprirlo basta leggere il saggio Pan in America che D.H. Lawrence scrisse nel suo ranch sulle Montagne Rocciose, più o meno negli stessi anni dell’avventura di Valentino. Lawrence comincia affermando che “qui in America, che è il paese più vecchio di tutti, il vecchio dio Pan è ancora vivo”; è ancora vivo lo spirito per cui l’uomo sente in sé le qualità di ogni altro essere vivente, la “dura, silente immobilità della roccia, la resistenza fluente di un albero, la fugacità quieta del puma, la ostinata terrestre sapienza dell’orso, la sottile fremente vivacità del cerbiatto, la visione dell’aquila che spazia nei cieli”. E dove e perché Pan è ancora vivo, lo scrittore inglese ce lo svela con chiarezza: tra gli Indiani, nel loro culto del Grande Mistero, nella loro visione delle cose per cui tutto è anima.
Valentino, arrivato in America da una terra che è dirimpetto alla Grecia, trasforma il suo Pan in Penna Nera, scegliendolo come spirito guida, per rientrare, forse, in quella dimensione dell’essere in cui ciascuno sente in sé l’intera energia dell’Universo.
Valentino ebbe dunque un approccio mitico alla vita, e divenne lui stesso un mito. Se a distanza di tanti decenni dalla morte si continua a parlare di lui, e se al di là dei suoi stessi film la sua immagine e il suo nome hanno preso connotati esemplari, e il suo nome stesso una specie di venatura antonomastica, come Adone o Casanova, vuol dire che Valentino non è stato soltanto inventato a Hollywood con la celluloide e la carta di giornale; vuol dire cioè che non è stato soltanto uno di quei tanti “miti d’oggi” mistificanti e falsi di cui ci parla Roland Barthes, ma che ha visto confluire in sé gli elementi oscuri con cui i miti veri, quelli che hanno profondità e anima, da sempre si costruiscono.
A leggere la vicenda di Valentino, gli elementi di mitizzazione sono il sesso, la morte precoce, l’ambiguità.
Valentino seduttore porta in America un modello europeo, una sontuosa sintesi di mediterraneità (il padre e la nascita pugliese) e di aura francese (la madre): un modello che aveva qualcosa di già superato in Europa, dove negli stessi anni impera il Futurismo e il nuovo modello di seduttore, dinamico e anti-sentimentale e imperioso è fornito dal Martinetti di Come si seducono le donne. Semmai c’è in Valentino-Sceicco qualcosa del travestimento sensuoso e languido di certo figure dell’estetismo dannunziano. L’ambiguità della sua bellezza, metamorfica, androgina, fuori tempo; l’ambiguità, il senso di mistero e di sospetto che regna intorno alla sua morte precoce, come per Marilyn Monroe, tanti anni dopo: sono questi i fattori che hanno permesso a Valentino di varcare il tempo, e di essere non soltanto nella storia del cinema, ma nella storia dell’immaginario collettivo novecentesco.
Nelle pagine di questo libro, il lettore troverà una originalissima interpretazione della figura di Valentino: i due autori, Chicca Morone e Antonio Miredi, hanno avuto il coraggio, trattando di un attore di cinema, di un adepto della Decima Musa, di convocare tutte le altre, di inscrivere l’oggetto della loro ricerca (e della loro passione) sotto il patrocinio delle dee che presiedevano, in tempi più felici dei nostri, a tutte le arti. Le Muse, ebbe a dire Borges, sono “ciò che gli Ebrei e Milton chiamarono lo Spirito e la nostra triste mitologia chiama Subcosciente”. La veramente triste mitologia del secolo che muore ha troppo spesso riportato tutto al subcosciente, o inconscio. Oggi noi possiamo rivendicare piuttosto alle Muse uno spazio autonomo di ricchezza, di sovrabbondanza spirituale, o quello spazio “immaginale” di cui ci parla Henry Corbin e che tanto è importante per capire la realtà di ogni nostra invenzione creativa. Le Muse ridiventano forze viventi, correnti e nodi di energia, dalla cui luce veniamo chiamati. E dalla cui luce tanti movimenti dell’anima si spiegano.
Nel capitolo cui presiede Calliope, è oggetto d’analisi la forza epico-erotica del Valentino Sceicco. Il predone del deserto che sottomette la donna bianca è a sua volta sottomesso alle leggi d’amore: questo è il segreto per cui l’eroe che potrebbe apparire un violentatore ottiene invece che nella donna si accenda “un sentimento di totale appartenenza” grazie proprio alla sua “sudditanza alle regole d’amore”. La sensualità di Valentino, come forse in chiunque, scaturisce da profondità misteriose e istintuali: e soltanto la morale corrente, ipocrita e oppressiva, nega che la sensualità sia in simbiosi con lo spirito.
È Tersicore, la musa della danza, che ci permette di vedere Valentino e la Rambova come una “sintesi androginica umana, proiezione di quella divinità: Pan e Selene”. E Polinnia ci mostra l’attore di fronte all’esperienza della pantomima: se il senso della pantomima è “imitare tutto”, allora Pan, il tutto, viene richiamato, e con esso il “panico”, nella sua doppia accezione di paura e di vitalità. Talia ci racconta Valentino interprete della Commedia umana e di Camille, alle prese con le vicende raccontate nel romanzo Eugénie Grandet di Balzac e sulle scene di Dumas figlio. Euterpe che presiede alla musica, offre il destro per una attenta sottolineatura della “sottile filigrana musicale” presente sia nella vita sia negli scritti di Valentino. Sotto la voce di Erato , la musa della poesia amorosa, possiamo leggere una analisi delle poesie contenute in Sogni ad occhi aperti, il libro che appartiene al momento più duro della vita dell’attore, nei cui testi alla grande, a tratti elementare semplicità linguistica viene rintracciato, grazie a strumenti attenti al simbolico e all’esoterico, un pathos genuino e magico.
Con Clio, entriamo nella storia, e leggiamo una sintesi illuminante delle vicende biografiche dell’attore, con Melpomene scopriamo la sua tragedia finale, da Urania veniamo condotti a decifrare le influenze astrali sul suo destino.
Il lettore è guidato così in un percorso dal tracciato davvero originale: le Muse ci presentano, ciascuna a suo modo, spezzoni di un film critico pieno di intuizione e di passione. Non è la celebrazione di un mito, quella cui assistiamo: è qualcosa di più, e di meglio. Vediamo all’opera strumenti mitici di indagine, che ci svelano come anche un mito del nostro secolo possa essere ricondotto, del mito, alle scaturigini primordiali ed eterne.
Giuseppe Conte